La rappresentazione di genere attraverso i media

A cura di Anita Bonetti

Marzo 28, 2024

genere e media

La rappresentazione di genere nei media tradizionali

Fin dai primi giorni sui banchi di scuola, abbiamo imparato a distinguere tra le parole al maschile e al femminile. Tuttavia, come ci ricorda il celebre sociologo Erving Goffman, il concetto di genere è molto più complesso di una semplice distinzione grammaticale.

Il genere è una questione di differenze costruite socialmente tra uomini e donne; nelle parole di Goffman “un’orchestrazione” intricata di ruoli, relazioni e anche potere. Fin da piccoli, i confini che differenziano maschile e femminile hanno un ruolo rilevante nella formazione dei nostri mondi quotidiani, riflettendosi anche sul sistema dei media.

Ma partiamo dal principio: cosa intendiamo quindi con la parola “genere”?

Mentre il sesso si riferisce alle caratteristiche biologiche che identificano uomini e donne, come i cromosomi XX o XY e le funzioni sessuali, il genere riguarda i ruoli sociali e le qualità distintive associate culturalmente alla mascolinità e alla femminilità. ll sesso è biologico, il genere è una costruzione socio-culturale che riflette le norme, le aspettative e le percezioni culturali su ciò che significa essere uomo o donna, che possono cambiare nel corso del tempo.

Tuttavia, quello che solitamente succede è che tali ruoli si cristallizzano nel corso del tempo, portando alla nascita di credenze semplicistiche e rigide, che chiamiamo “stereotipi di genere”. Per intenderci, tutti quei discorsi per cui se sei un uomo non puoi piangere, se sei una donna sei isterica/emotiva, se sei uomo sai avvitare una lampadina e se sei donna guidi male, se sei maschio il fiocco sulla porta va messo azzurro e se sei femmina va messo rosa.

Gli stereotipi di genere si manifestano anche nei media, in particolare, nel modo in cui i media rappresentano le donne. Ma esistono differenze tra media tradizionali (tv, radio, stampa) e nuovi media (social media)?

Partiamo dall’analisi della televisione: se riflettiamo sui programmi trasmessi sia dai canali nazionali che dalle reti private, ci vengono in mente esempi come le Veline di Striscia la Notizia, la Gatta del Mercante in Fierao Madre Natura di Ciao Darwin. È evidente come persista una rappresentazione stereotipata della donna, spesso ridotta a mero oggetto di desiderio per lo sguardo maschile, incarnando il concetto di male gaze.

Il concetto di gaze (sguardo) è stato utilizzato per la prima volta dal critico d’arte inglese John Berger in (1972), che presenta un’analisi della rappresentazione delle donne – come oggetti passivi da vedere – nella pubblicità e come nudi nell’arte europea. La studiosa femminista Laura Mulvey ha applicato il concetto digazeper criticare le rappresentazioni tradizionali delle donne nel cinema, utilizzando specificamente il termine male gaze.

Questo stereotipo si dimostra così radicato nella nostra televisione che, piuttosto che eliminare la presenza di giovani donne di bell’aspetto sempre sorridenti, si preferisce associarle a giovani maschi altrettanto attraenti. Ecco quindi che, negli studi de L’Eredità su Rai Uno, assistiamo a un’affollata presenza di Professoresse e Professori, in un tentativo maldestro di adattarsi ai tempi odierni senza affrontare un cambiamento.

Potremmo dire che siano retaggi della televisione com’era una volta, quella della pubblicità “Brava Giovanna Brava”, ma anche la stampa non è da meno:

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Il quotidiano Libero non è certo nuovo ai titoli irriverenti, ma il pezzo in questione, datato 10 febbraio 2017 che si riferisce alla Sindaca Virginia Raggi chiamandola “Patata Bollente”, ha portato il fondatore Vittorio Feltri e il collega Pietro Senaldi ad essere condannati per diffamazione.

Un altro esempio dal mondo dello sport:

In effetti, ci troviamo di fronte a una rappresentazione che relega le donne in stereotipi limitanti: non vengono ritratte come atlete professioniste, ma come “cicciottelle”; non vengono riconosciute come sindache, bensì etichettate come “patate bollenti”; persino i successi internazionali possono essere sminuiti, come nel caso del premio Nobel per la Chimica assegnato a Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, definite dal Corriere della Sera “Thelma e Louise del DNA“. 

 

Uno sguardo ai dati

Se vogliamo cercare di rispondere alle domande che ci siamo posti in precedenza, possiamo provare a leggere i dati del Global Media Monitoring Project (GMMP), la più vasta e longeva ricerca sul genere nei media mondiali. In particolare, il GMMP indaga, ogni cinque anni, alcuni indicatori della rappresentazione di genere sui media: la presenza delle donne rispetto agli uomini, i pregiudizi e gli stereotipi di genere nelle notizie e in altri contenuti. 

L’ultimo rapporto relativo al nostro paese è datato al 2020 e ha monitorato i media tradizionali – 8 giornali, 6 radio e 8 canali televisivi – così come 8 siti di notizie su Internet e i feed Twitter di 8 news outlet. 

Quali sono i risultati? La presenza complessiva di donne come soggetti e fonti di notizie nei mezzi di informazione è del 26% su un totale di 980 persone: 24% nei media tradizionali – stampa, radio, TV – su un totale di 526 persone, e 28% nei media digitali – Internet, Twitter – su un totale di 454 persone. Le storie che presentano le donne come focus centrale sono solo l’11% su un totale di 220 (anche se in leggero aumento rispetto all 2015).

Non sorprende che le donne siano al centro dell’attenzione soprattutto nelle notizie su crimini e violenza (28%), che presentano le storie di vittime o sopravvissute. Inoltre, piuttosto che in quelle locali o nazionali, le donne sono più presenti nelle news legate all’Unione Europea e alle istituzioni internazionali.

Questi dati mettono in luce una netta sottorappresentazione delle donne nei media, ma evidenziano anche le sfide connesse a una persistente rappresentazione stereotipata del genere.

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A giudicare dagli esempi visti in precedenza, sembra che gli stereotipi di genere pervadano ancora i media tradizionali: pubblicità, televisione, cinema propongono ancora figure femminili come oggetto sessuale  conforme alle norme di desiderabilità dello sguardo maschile.

 

Social media: qualcosa è cambiato?

Ma qualcosa sta cambiando?

Secondo la Professoressa Rosalind Gill della City University di Londra, oggi le donne sono spesso ritratte come soggetti attivi che prendono decisioni riguardo al proprio status sessuale. Questo passaggio alla soggettificazione sessuale segna una “netta rottura con le rappresentazioni del passato in cui le donne erano passive e oggettificate” (Harvey & Gill, 2011). Il focus diventa la propria vita personale e il proprio potere di consumo come strumento di espressione individuale e di agency. È l’altra faccia dell’empowerment: non uno strumento di libera e variegata espressione di sé, ma uno stereotipo aggiornato al contesto neoliberale, quello della donna imprenditrice, affascinante, sicura di sé e autentica (vi ricorda qualcuno?).

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Apparentementi i social media offrirebbero la possibilità di esprimere la propria identità di genere in modo più variegato e meno conforme alle aspettative sociali: creano, infatti, spazi (più o meno) protetti per sperimentarsi con la creazione di contenuti attraverso cui rappresentarsi, soprattutto per i più giovani.

Ma i social media non esistono nel vuoto e l‘influenza delle rappresentazioni stereotipate non manca di far sentire il suo peso anche negli spazi online, attraverso modelli “di successo” di influencer e celebrità. Il successo sui social continua a rimanere legato agli stereotipi di genere, in particolare quelli del modello post-femminista e neoliberale che abbiamo descritto. Le ragazze e i giovani in generale vivono nel delicato equilibrio tra l’espressione della propria identità e le dinamiche di riconoscimento sociale che passano dai like.

Uno studio pubblicato sull’Italian Sociological Review ha coinvolto 900 adolescenti italiani invitandoli a creare, attraverso delle moodboard, personaggi social fittizi che avessero il potenziale per il successo. Ne sono emerse diverse tipologie, al maschile e al femminile.

  1. La ragazza della porta accanto: Giovane, di bell’aspetto, magra, capelli lunghi, makeup e abbigliamento femminile: ha tutti gli indicatori del modello femminile egemonico, comprese le pose con la testa leggermente piegata o lo sguardo perso verso l’orizzonte. L’estetica è quella di Instagram, in cui tutto deve apparire naturale, spontaneo, amatoriale e quotidiano, comunicando un senso di intimità.
  2. Fashion girl: Secondo gli standard della donna giovane e attraente, curata, magra, eterosessuale. L’estetica è quella dei magazine, della moda, della pubblicità, con uno stile più professionale delle immagini e delle pose, che possono essere anche più spiccatamente sexy.
  3. La ragazza attiva-attivista: Rappresentata da gruppi composti principalmente da studentesse, viene ritratta in occupazioni non tradizionalmente femminili, come i videogiochi, il calcio, la musica o le campagne per l’uguaglianza di genere, la body positivity, contro la violenza di genere o la discriminazione LGBTQ+.  Sfida le rappresentazioni restrittive della donna e non ha paura di mostrare corpi normali con curve, cellulite e smagliature.

Per quanto riguarda la rappresentazione di figure maschili è più variegata e anche se il corpo ipermascolino è sempre presente, non è l’unico parametro di giudizio: la competenza tecnologica può vincere sui muscoli, ad esempio.

Insomma il potenziale per sfidare gli stereotipi ci sarebbe anche, ma le norme e le aspettative complesse e contraddittorie che riguardano i nostri corpi non sono scomparse, soprattutto perché le piattaforme promuovono obiettivi di riconoscimento sociale e di successo (anche monetizzabile): rappresentandosi secondo gli stereotipi di desiderabilità sociale, si vince (più) facile nel gioco della “popolarità digitale”.

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Come si perpetuano gli stereotipi di genere

Erving Goffman, indagando oltre la quantità di presenza femminile sui media, ha studiato le rappresentazioni di genere sostenendo che i media forniscano i modelli ideali di uomini e donne:

«I modelli proposti dai media e dalla pubblicità contribuiscono a definire il significato dell’appartenenza di genere, imponendosi con forza per il fatto di essere pubblicamente diffusi» (Goffman, 1976, p. 76).

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Il vasto universo dei media – che sia televisione, stampa, internet o i vari social network – è uno specchio della realtà in cui viviamo ma anche un modello per le nuove generazioni. I media ci raccontano storie, ci mostrano immagini, ci fanno vivere emozioni. E, nel farlo, ci trasmettono anche valori, aspettative e standard, suggerendo il modo giusto di pensare a determinate categorie e al nostro comportamento.

In questo senso, i social media a volte si trovano a seguire gli stereotipi di genere già consolidati in media più tradizionali, altre volte presentano la figura di modelli forti, ambiziosi e  professionalmente autonomi, ma trasformandoli in strumenti di self-branding a fini commerciali. 

Le logiche di marketing che sono alla base delle piattaforme adesso premiano gli stereotipi egemonici, ma non doveva per forza andare così e non è detto che andrà sempre così. Il futuro della rappresentazione di genere dipenderà dalla capacità di dare voce a tutti i corpi, mettendo in discussione i nostri modelli ideali.

Per dirla con le parole di Goffman, in fondo:

«The normal and the stigmatized are not persons but rather perspectives.»

Per approfondire

  • Harvey, L., Gill, R. (2011). Spicing It Up: Sexual Entrepreneurs and The Sex Inspectors . In: Gill, R., Scharff, C. (eds) New Femininities. Palgrave Macmillan, London. https://doi.org/10.1057/9780230294523_4
  • Manolo Farci & Cosimo Marco Scarcelli (2023) Men have to be competent in something, women need to show their bodies. Gender, digital youth cultures and popularity, Journal of Gender Studies, DOI: 10.1080/09589236.2023.2241857
  • Goffman, E. (1976). Gender Display. In: Gender Advertisements. Communications and Culture. Palgrave, London. https://doi.org/10.1007/978-1-349-16079-2_1
  • Roberti, G. (2022). Female influencers: Analyzing the social media representation of female subjectivity in Italy. Frontiers in sociology7, 1024043.

 

 

Anita Bonetti

Dottoranda presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea triennale in Lettere Moderne all’Università di Bologna, ha conseguito la specializzazione in Comunicazione Pubblica e d’Impresa. La sua esperienza ha approfondito l’ambito della Comunicazione Pubblica, a partire dalle Istituzioni Culturali fino ad occuparsi, negli ultimi anni, del Centro di Data Science and Complexity dell’Università La Sapienza di Roma

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