Perché non capisco i meme? Parte IV

A cura di Anita Bonetti

Marzo 11, 2024

Meme nonsense - Logon

Dopo aver definito i meme, distinto i meme pre-ironici da quelli ironici, contestualizzato questo linguaggio in una specifica e molto coesa sottocultura, ecco forse dobbiamo ammettere che la risposta alla domanda “perché” non capisco i meme potrebbe anche essere: perché non hanno senso.
In questo post ci addentreremo nel mondo del nonsense…

Qual è il senso del nonsense?

Il nonsense esiste da prima di internet, ovviamente, ma negli ambienti digitali sembra aver trovato un canale ideale alla circolazione: non solo meme, ma anche altri fenomeni virali come le challenge, video di persone che compiono senza motivo azioni prive di senso spesso anche pericolose (solo per ricordarne qualcuna: la Ice Bucket Challenge, la mannequin challenge, il planking, la cinnamon challenge).

Come scrive Valentina Tanni, storica dell’arte, nel saggio Memestetica:

Internet ha moltiplicato le nostre occasioni di venire a contatto con il nonsense, ma anche di generarlo in prima persona, favorendo la deriva e l’associazione libera di idee e immagini. Una forma di resistenza verso una cultura normalizzante, ma anche una via creativa per esorcizzare le contraddizioni del nostro tempo. Il mondo dei meme e delle immagini virali pullula di oggetti paradossali, che testimoniano della nascita di uno specifico gusto per il genere: pezzi di formaggio usati come gioielli, pistole immerse in un bagno di uova rotte, gelati serviti dentro a scarpe da ginnastica, computer usati come palette dell’immondizia, sculture realizzate con le patatine fritte, panini al dentifricio e libri messi a scaldare nel tostapane. Anche la pratica dell’accumulo gode di grande popolarità: automobili piene di banane, vasche da bagno che ospitano montagne di ciambelle, stanze piene di telefoni cellulari, letti sommersi da cartoni di pizza…

Il nonsense ha una lunga tradizione in letteratura: nell’Inghilterra dell’800 è un vero e proprio genere letterario. Uno degli esempi più celebri è la poesia “Jabberwocky” di Lewis Carroll, contenuta in “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”. Un altro esempio, questa volta italiano, di poesia che contiene esclusivamente parole senza significato è “Il lonfo” di Fosco Maraini. Ma il nonsense pervade la letteratura novecentesca, dalla patafisica di Alfred Jarry al Joyce di “Finnegans Wake”. Lo ritroviamo anche nel teatro – il teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco, o il grammelot di Dario Fo –  e nel cinema – la supercazzola di “Amici miei” – e nella televisioni, per esempio la comicità di Nino Frassica.

Già da questi esempi è facile capire che esistono diversi modi di mettere in atto e di intendere il nonsense pre-digitale. Possiamo, per esempio, distinguere il nonsense come assenza di significato, la decostruzione di significato e il gioco con le regole del linguaggio. Questa è la classificazione proposta da Yuval Katz e Limor Shifman, in un paper che prova a comprendere il nonsense dei meme. Vediamo le tipologie nel dettaglio.

Diversi sensi del nonsense

Nonsense come assenza di senso: questo tipo di nonsense rappresenta il totale disinteresse per l’espressione di significato, la rinuncia ad ogni tentativo di esprimere una forma di verità. Di contro ciò che emerge è la presenza dell’autore, l’atto di auto-espressione. Fanno parte di questo tipo di nonsense anche l’imitazione per il gusto dell’imitazione, l’intertestualità e il pastiche di Andy Warhol, ma anche i dipinti di Jackson Pollock.

Nonsense come decostruzione di significato: questo tipo di nonsense mette sotto la lente la capacità dei segni di creare significato e ne evidenzia il fallimento.
È il caso del già citato teatro dell’assurdo, riflesso della crisi esistenziale del Novecento, che mette in discussione le certezze razionali, attraverso la rappresentazione nel nonsense. In “Aspettando Godot”, le attese infinite di Vladimiro ed Estragone, la trama inesistente e i discorsi sconnessi e superficiali sfuggono alla possibilità di un’interpretazione chiara e univoca e riflettono così il nonsenso della vita umana.

Nonsense come gioco con le regole del linguaggio
Come nei Limerick di Edward Lear (in italiano Gianni Rodari ha scritto diverse filastrocche di questo tipo) o negli esperimenti dell’OuLiPo (George Perec che scrive un intero racconto senza usare la lettere E), si può giocare con le regole della logica, della prosodia, della grammatica o una combinazione di questi elementi. Oppure sperimentare polisemie che permettono interpretazioni indefinite, lasciando libertà al fruitore di attribuire un significato in base alle proprie preferenze, esigenze o contesto. Ma è fondamentalmente per creare un senso di affiliazione tra i partecipanti al gioco: qualità che emerge chiaramente in un caso non letterario, quello di  Kilroy was here un vero e proprio meme dell’era pre-digitale, dal significato oscuro, comparso in forma di graffito sui muri di diverse località durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il nonsense nei meme

meme e lolspeak - Logon odv

Ritroviamo tutte queste tipologie di nonsense anche nei meme: il gioco con le regole del linguaggio, per esempio nell’adozione di parole scritte in modo scorretto, di un gergo “sciocco” (i.e. quello del doge o il lolspeak) senza significati particolari se non quello di essere buffo e noto alla comunità dei mematori.
L’imitazione e il pastiche costituiscono la base stessa del meme, la citazione di un frammento di media che a furia di essere riprodotto si decontestualizza e diventa fine a se stesso (e all’affermazione della presenza dell’artista-mematore). Un’altra forma è quella della dislocazione, in cui un frammento visuale viene tagliato e incollato in contesti sempre differenti e “fuori luogo” o viene moltiplicato (come nel facebombing) oppure diversi elementi di meme vengono integrati per un effetto crossover, senza che questo abbia un chiaro significato. Questo meccanismo di “spostamento” contestuale assomiglia al ready-made dadaista: Duchamp che prende un orinatoio e lo ricolloca dal contesto di un bagno pubblico a quello di un museo, ridefinendolo come opera d’arte ma lasciando molteplici possibilità di interpretazione di questo gesto nonsense.

Possiamo iniziare a capire perché il nonsense prolifera nel mondo digitale: la multimedialità che mette a disposizione molteplici linguaggi con cui giocare, la facilità del remix digitale attraverso software sempre più a portata di tutti e la cultura partecipativa sono sicuramente ingredienti di questa ricetta di successo.

meme crossover

Esempio di meme crossover

La condivisione di meme nonsense diventa una liberazione dalle convenzioni sociali, che crea affiliazione, come spiegano Katz e Shifman:

Questa cancellazione del significato può consentire la creazione di comunità inclusive. In quanto modelli perennemente vuoti, i meme nonsense possono potenzialmente includere chiunque e qualsiasi cosa, consentendo a una varietà di partecipanti di esprimere la loro eccentrica creatività senza essere criticati

Quali sono, invece, le differenze rispetto al nonsense pre-digitale?
Il nonsense è sempre, in qualche modo, un’indagine sul significato del significato: nel nonsense pre-digitale viene messo in discussione il piano referenziale, il rapporto tra significato di un testo e il referente esterno, il mondo, la realtà. Questo tipo di nonsense interpella il fruitore su un piano cognitivo, intellettuale. Nel nonsense digitale prevale, invece, il significato che emerge su un piano emotivo, nella dimensione del gioco e del legame sociale che questo genera, su un piano pre-cognitivo.
Proseguendo il ragionamento di Katz e Shifman, questa enfasi sull’affiliazione pre-cognitiva finisce per cambiare le carte in tavola del meccanismo del nonsense:

Poiché il nonsense memetico opera in un contesto comunitario, sono necessarie delle linee guida per tenere uniti i membri. In questo senso, Internet ha invertito la funzione del nonsense.
Il nonsense pre-digitale nelle arti è uno strumento riflessivo e intellettuale che sovverte i legami sistematici e arbitrari tra i significanti e il mondo che essi significano. I lettori sono solitamente invitati non a partecipare, ma ad apprezzarlo. Il nonsense memetico, invece, crea un sistema con una serie di regole che governano l’espressione. Queste regole sono esplicitamente arbitrarie e ridicole, ma è proprio la loro negoziazione che aiuta questi meme a risuonare tra molte persone. Spesso sono in equilibrio tra la semplicità, che permette alle persone di unirsi alla comunità, e la raffinatezza, che aiuta a distinguere i membri alfabetizzati dai non membri.

Ed ecco che siamo tornati al tema della comunità dei memers, già emerso a proposito dei meme ironici. Aggiungiamo un altro pezzo a questo puzzle. Il nonsense emerge anche dall’irrilevanza attribuita al contenuto del messaggio, nel momento in cui prevale un’altro scopo della comunicazione:  la funzione fatica.  Il messaggio fatico è orientato non ad esprimere un pensiero ma a mantenere aperto il canale comunicativo, a favorire la prosecuzione del processo comunicativo.

E ciò che rende Internet sorprendente è la sua capacità di consentire a queste comunità di superare i confini territoriali e diventare transnazionali. In effetti, la tesi formulata da Benedict Anderson nel 1983 definisce l’idea di nazione come il sentimento di appartenenza a un gruppo esteso, i cui membri, pur non conoscersi direttamente né incontrarsi faccia a faccia, riescono a vivere e a condividere, persino a distanza, l’immagine di formare una comunità. Oggi, questo immaginario condiviso è alimentato dalla possibilità di accesso agli stessi contenuti da parte delle audience e dalla condivisione dei medesimi canoni di rappresentazione e delle stesse icone.

Già nel 2008 Miller aveva individuato nel passaggio dalle piattaforme di blogging ai social media, uno spostamento di focus: da uno scambio di informazioni biografiche in forma narrativa volto a creare relazioni, a uno scambio di comunicazione finalizzata esclusivamente a mantenere il network, il contatto con la rete di amici e di follower.
Con questo spostamento di focus, che toglie valore al contenuto informativo si genera un terreno fertile per il nonsense.

 

Per approfondire

 

Anita Bonetti

Dottoranda presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea triennale in Lettere Moderne all’Università di Bologna, ha conseguito la specializzazione in Comunicazione Pubblica e d’Impresa. La sua esperienza ha approfondito l’ambito della Comunicazione Pubblica, a partire dalle Istituzioni Culturali fino ad occuparsi, negli ultimi anni, del Centro di Data Science and Complexity dell’Università La Sapienza di Roma

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