Salute mentale degli adolescenti: è davvero colpa degli smartphone?

A cura di Francesca Memini

Aprile 16, 2024

salute mentale adolescenti social media - Logon odv

Che impatto hanno gli smartphone e l’utilizzo dei social media sulla salute e il benessere mentale dei più giovani? Una domanda che torna spesso nel mondo della ricerca, ma ancora di più nel mondo reale, quello concreto, la savana in cui ogni giorno un genitore si sveglia angosciato e sa che dovrà essere più irremovibile della sua prole minorenne nel negare a oltranza lo smartphone, e ogni giorno un minore si sveglia e sa che dovrà essere più petulante del genitore per piegare la sua volontà e ottenere il sacro graal dell’interazione digitale.
Il dibattito è tornato sotto i riflettori dei media proprio in questi giorni, con la pubblicazione del nuovo libro di Jonathan HaidtThe Anxious Generation”. Haidt, che insegna psicologia sociale presso la Stern School of Business della New York University ed è editorialista dell’Atlantic, si basa sulla Smartphones and Social Media (SSM) Theory secondo cui il 2012 è stato l’anno in cui la maggior parte degli adolescenti statunitensi ha sostituito i telefoni cellulari con gli smartphone, dotati di fotocamere frontali (a partire dal 2010). Sempre nel 2012 Facebook ha acquistato Instagram, facendo impennare la sua popolarità e la sua base di utenti. Le ragazze, in particolare, hanno iniziato a postare selfie e tutti gli adolescenti che non hanno trasferito la loro vita sociale sul telefono si sono trovati parzialmente tagliati fuori.

Haidt sostiene che da questo momento gli smartphone e i social media, con le dinamiche di dipendenza che li caratterizzano, abbiamo allontanato i giovani da quelle attività che da sempre sono indispensabili per lo sviluppo infantile : il gioco all’aria aperta, le relazioni in presenza, il sonno. Inoltre sono emerse attività digitali che mettono in crisi l’autostima, riducono le capacità di attenzione e costringono a una faticosa e costante performance della propria identità online. Di conseguenza i livelli di ansia e depressione, il tasso di suicidi e di autolesionismo della generazione Z, la prima ad essere cresciuta fin dall’infanzia con gli smartphone, sono aumentati, tanto che già da un pezzo si è cominciato a denunciare una vera e propria epidemia nella salute mentale dei più giovani.
Cosa propone di fare Haidt per porre rimedio a questo problema? La sua ricetta comprende l’invito a non fornire uno smartphone ai ragazzi prima dei 14 anni, niente smartphone a scuola, nemmeno in tasca o spenti; e una legge che sposti l’età per accedere ai servizi online dai 13 ai 16 anni, con obbligo di verifica per le piattaforme.

Gli scettici

Queste tesi di Haidt, sostenute nel libro attraverso la citazione di numerosi studi, ma senza dubbio colorita da sfumature di “moral panic”, hanno trovato immediato riscontro nel picco di vendite del libro. Ma la polemica su un tema così polarizzante è scoppiata velocemente, pur mantenendosi su toni pacati e di dialogo scientifico. Una polemica che viene combattuta a colpi di dati e di pubblicazioni.
In particolare una critica piuttosto pesante è stata quella mossa da Candice L. Odgers, docente di psicologia sociale alla California University Irvine, in una recensione del libro su Nature, che potremmo sintetizzare con la frase “the book’s repeated suggestion that digital technologies are rewiring our children’s brains and causing an epidemic of mental illness is not supported by science”, ossia, in soldoni, che la tesi del libro non è supportata dalla scienza.
Odgers accusa Haidt di confondere correlazione e causalità, di aver fatto un rigoroso cherry picking degli studi che confermano la sua opinione e di aver escluso quelli che la confutano (ne cita diversi) e sostiene che le radici dell’epidemia di malattie mentali negli adolescenti va cercata altrove, e soprattutto non si risolve con un facile colpevole. L’origine di ansia e depressione andrebbe rintracciata in una complessa interazione di fattori genetici e ambientali, tra cui potrebbe giocare un ruolo anche la crisi economica del 2008. Alcuni ricercatori citano come possibili determinanti l’accesso alle armi, l’esposizione alla violenza, la discriminazione strutturale e il razzismo, il sessismo e l’abuso sessuale, l’epidemia di oppioidi, le difficoltà economiche e l’isolamento.

Oltre al commento di Odgers altre voci critiche si sono fatte sentire online e sui social media (per esempio qui, qui e qui). Tra queste c’è anche chi si spinge oltre nella critica, arrivando a mettere in dubbio l’esistenza di tale epidemia nella salute mentale. Il tasso di suicidi negli Stati Uniti è aumentato non solo per gli adolescenti ma per tutte le fasce di età. I dati dell’OMS sui suicidi nella fascia di età 15-19 dal 2010 non riportano una crescita uniforme in tutti i paesi occidentali, con alcuni paesi (e l’Europa intera, se considerata tutta insieme) in cui il tasso è perfino diminuito in maniera significativa. Senza considerare i paesi asiatici, che non vengono presi in considerazione da Haidt.

Chi ha ragione?

Haidt ha risposto puntualmente e nel dettaglio a tutte le critiche, snocciolando pubblicazioni scientifiche, dati e statistiche nella sua newsletter.
Il dibattito si sta svolgendo con pacatezza e in maniera incredibilmente corretta, soprattutto per gli standard di internet e dei social, nonostante l’argomento sia decisamente controverso e polarizzante. Haidt si è mostrato sinceramente preoccupato e ha sempre fatto presente la complessità del problema senza utilizzare mai affermazioni semplicistiche. La sua trasparenza e la volontà di alimentare un dibattito nella comunità scientifica emerge anche dal fatto che insieme al suo team ha reso pubblico un Google Doc che contiene gli oltre 300 studi su cui poggia le sue argomentazioni e si impegna a rispondere con post lunghi e articolati, evitando che il dibattito si svolga a colpi di Tweet. Le risposte appaiono sempre altrettanto rispettose e, proseguendo questo trend, online c’è anche chi ha provato a fare ordine tra le argomentazioni delle due fazioni, per esempio alcuni articoli di Vox e The Platformer.

Ma in pratica chi ha ragione, secondo la scienza? Ecco, questo dibattito ci mostra non solo quanto sia complesso il problema della salute mentale, ma anche quello del dibattito scientifico e dell’interpretazione dei dati.
The Platformer ha provato a chiedere chi ha ragione tra Haidt e Odgers a un terzo docente universitario che si occupa di questi temi. Andrew Przybylski, professore di Human behavior and technology all’Università di Oxford, afferma che questa situazione assomiglia molto al “conteggio dei voti” e sostiene che Haidt si concentra sulla quantità degli studi scientifici piuttosto che sulla selezione degli studi di maggiore qualità.
Vox invece riporta un altro dubbio, molto interessante per capire in quanti modi i dati, se estrapolati dal contesto, possono essere fraintesi. In particolare il focus è sull’esistenza di questa epidemia di disturbi mentali tra gli adolescenti. L’ipotesi è che la destigmatizzazione dei disturbi mentali insieme alla ridefinizione di alcune categorie di disturbi abbiano portato a un’inflazione di diagnosi, sia autoriferite sia riportate nelle cartelle cliniche. In particolare, per quanto riguarda le risposte degli adolescenti a questionari sulla propria salute mentale, scrive Vox:

Per questo motivo, il fatto che gli adolescenti di un determinato Paese siano diventati più propensi a dichiararsi “ansiosi” o “depressi” – o a ricevere una diagnosi di disturbo dell’umore – non significa necessariamente che la loro effettiva esperienza soggettiva sia peggiorata. Piuttosto, chi soffre di disturbi dell’umore potrebbe avere maggiori probabilità di sapere di soffrire di tale condizione o di ammettere di soffrirne. Nel frattempo, alcuni adolescenti che soffrono di tristezza o stress che non raggiungono un livello clinico possono essere più inclini a concettualizzare i loro sentimenti in termini clinici.

Ma anche i dati relativi ai ricoveri ospedalieri, che dovrebbero essere più oggettivi, potrebbero essere distorti. Come spiega Andrew Przybylski, i protocolli di registrazione delle diagnosi nelle cartelle cliniche cambiano nel tempo e in particolare, con l’applicazione del nuovo International Classification of Diseases (ICD) avvenuta negli Stati Uniti nel 2015, ci sono stati dei cambiamenti significativi:

Ad esempio, prima del 2015, un medico doveva inserire due codici distinti per registrare un caso di autolesionismo: doveva prima inserire il tipo di infortunio ( ad esempio un’overdose di Xanax) e poi segnare separatamente se l’infortunio era intenzionale o accidentale. Secondo i ricercatori, i medici spesso trascuravano di inserire il secondo codice, il che portava a una sottostima degli episodi di autolesionismo. Dopo l’adozione del nuovo ICD nell’ottobre 2015, tuttavia, i medici hanno potuto registrare un’overdose intenzionale di benzodiazepine con un unico codice. I casi di autolesionismo registrati sono subito aumentati in molti sistemi sanitari. Ma si è trattato di una conseguenza delle modifiche alla codifica piuttosto che di un effettivo aumento dei casi.

It’s complicated!

Quando la comunità scientifica non ha ancora trovato una conclusione sufficientemente solida, quando i risultati degli studi sono contraddittori (c’è anche chi sostiene che i social media abbiano effetti positivi sul benessere, cosa che è emersa per esempio durante la pandemia), quando si presenta una correlazione ma non è chiaro cosa sia causa di cosa (l’uso di social media provoca depressione o la depressione porta a un maggiore utilizzo di social media?), di solito si conclude tutto con “servono altri studi, di maggiore qualità”.
Il problema però resta su un piano politico, etico e pedagogico: cosa deve fare un genitore? In che direzione orientare le leggi? Gli scienziati qui esprimendo un’opinione si espongono su un piano che esula dal loro ambito: Haidt propende per un principio di cautela, gli scettici sostengono che intervenire in assenza di prove certe rischi persino di essere controproducente.
Noi la risposta giusta non la sappiamo, ma ci sono un paio di riflessioni che ci sembra interessante sottolineare.

Haidt ha una capacità retorica notevole: sa essere convincente, anche perché le sue argomentazioni fanno appello all’esperienza comune di tanti di noi lettori (forse più che su solide evidenze scientifiche) e risuonano con la nostra esperienza d’uso dello smartphone e con le nostre paure. Inoltre la sua decisione di pubblicare un libro dal taglio divulgativo è una mossa astuta: molti degli articoli che confutano gli studi e i dati riferiti da Haidt sono francamente un po’ noiosi e per addetti ai lavori. Haidt porta il dibattito in uno spazio pubblico, diverso da quello del mondo accademico. Rifacendoci alla retorica classica, possiamo dire che Haidt, con questo tipo di pubblico, se la cava bene sul piano dell’ethos, la credibilità dell’oratore data anche dal modo in cui si comporta,  dalla sua posizione sociale e dalla coerenza tra i valori professati e l’atteggiamento online, egregiamente su quello del pathos, la persuasione basata sulle emozioni, e un po’ meno sul piano del logos, la persuasione basata sulla solidità delle argomentazioni a supporto.

E quindi parliamo delle soluzioni concrete che promuovano il benessere degli adolescenti – il tema che sicuramente è più caro al maggior numero di lettori. Interessante la posizione di Dylan Selterman, psicologo presso la Johns Hopkins University, che su Psychology Today incoraggia un approccio in cui venga predisposto un ambiente di crescita che accolga gli adolescenti e li aiuti a sviluppare doti di resilienza per non imporre loro delle norme che sminuiscano la propria capacità di autodeterminarsi. Selterman scrive:

Se cerchiamo di limitare l’uso dei social media da parte dei giovani, commettiamo esattamente questo errore. Stiamo impartendo agli adolescenti la lezione che sono incapaci di sviluppare una buona salute mentale senza l’intervento degli adulti. Mi sembra una pessima idea. Dovremmo insegnare loro la resilienza.
Credo che la scarsa salute mentale degli adolescenti derivi da problemi sociali più ampi che devono essere affrontati con soluzioni più creative, volte a massimizzare la soddisfazione dei bisogni psicologici e l’autodeterminazione. Se creiamo ambienti e comunità in cui gli adolescenti possano prosperare, non credo che i social media abbiano effetti dannosi su scala di massa.

Nel 2014 danah boyd pubblicava It’s Complicated. The Social Lives of Networked Teens, libro che conteneva i risultati del suo studio etnografico sull’utilizzo dei social media da parte degli adolescenti statunitensi. Sono passati 10 anni ma le sue conclusioni sembrano ancora valide:

I social media sono diventati parte integrante della società americana. Gli adolescenti di oggi, al di là del loro livello personale di partecipazione, stanno crescendo in un’epoca caratterizzata dal facile accesso alle informazioni e dalla comunicazione mediata. Le innovazioni nei social media continueranno a emergere, rendendo possibili nuove forme di interazione e complicando le dinamiche sociali in modi interessanti. L’ascesa di smartphone e tablet sta presentando ancora più sfide, portando la già nota nozione di always-on a nuovi livelli e creando nuovi percorsi per muoversi negli spazi fisici. I social media sono onnipresenti, e quindi il fisico e il digitale saranno legati in modo permanente e i loro confini più sbiaditi. Nuove innovazioni porteranno a nuove sfide, mentre si cerca di pensare alla privacy, di affermare il proprio senso di identità e di rinegoziare le dinamiche sociali quotidiane. E se la storia si ripete, gli adulti sono ‘condannati’ a proiettare le stesse paure e le ansie che hanno per i social media su qualsiasi nuova tecnologia catturi l’immaginazione dei giovani del futuro. (…) Anziché opporre resistenza alla tecnologia e temere ciò che potrebbe succedere quando i giovani adottano i social media, gli adulti dovrebbero aiutare i giovani a sviluppare le competenze e la prospettiva per affrontare in modo produttivo le complicazioni portate dalla vita nei public in rete (ndA gli spazi pubblici immaginati e organizzati per mezzo della tecnologia) . Collaborando, giovani e adulti possono contribuire a creare un mondo in rete in cui tutti vogliamo vivere.

Per approfondire

Francesca Memini

Laureata in filosofia, mi occupo di progettazione e comunicazione strategica in ambito medico, collaborando con agenzie di comunicazione, università, associazioni di pazienti e società scientifiche. Ho conseguito un master in Medicina Narrativa presso Istud Sanità e ho svolto attività di formazione per i professionisti della salute. Ho fondato lo studio Con cura per la progettazione di attività di comunicazione di salute e digital health.

Cosa succede su Instagram?

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